DIARIO DI BORDO – G20 – Lettera al mio mare
Aquarius 17 marzo 2016
Ah! Eccoti qui! Ma dov’eri andato? Fin da quando tornavamo verso la Sicilia, hai ricominciato a farci gli occhi dolci e ad abbassare la cresta.
Le milleottocentodiciassette tonnellate dell’Aquarius scivolano su di un mare liscio, su di uno specchio d’acqua blu, senza un alito di vento.
Questa mattina, dopo una notte senza incubi, ho spalancato le tende della mia cabina su di un cielo trasparente e leggero.
Fuori sembrava un paradiso. Levanzo, Marettimo e Favignana, le isole Egadi a ovest della Sicilia, le loro spiagge dorate, il loro vino rosso e le triglie fritte.
Ho ascoltato sorpreso: non uno scricchiolio, nemmeno il pur che minimo segno di quella collera che torturava l’enorme carcassa del nostro Aquarius.
Appena poche ore fa, di fronte alle coste libiche, sotto una luce grigia, non ti avevo riconosciuto, con li tuoi fianchi ornati da una bava di schiuma e la cima delle onde a disegnare una smorfia quasi fosse uno sconcio rito di morte.
Ero sbalordito. Il nostro Mediterraneo mai mi aveva mostrato tanta durezza.
E quel vento, quel vento che spira così come Scilla quando afferrava i naufraghi e li annegava senza pietà.
Quel mattino non erano neppure dei marinai, semplicemente degli Africani alla deriva.
Non sapevano neanche nuotare!
Il loro motore ansimava, lo zodiac si sgonfiava a poco a poco, praticamente una zattera colma di disperazione che si dibatteva sull’acqua, simile a un animale in agonia.
Non avevano alcuna possibilità! E tu ti accanivi.
Aquarius è arrivato appena in tempo. Li abbiamo raccolti.
La notte, sul ponte, li ho ascoltati.
Dapprima, Priscilla e il suo bambino di tre mesi di nome “Benedetto”, partita dal Camerun col suo neonato, per fuggire da un matrimonio obbligato, per dare al suo piccolo una vita libera.
Poi Willy, cinque anni, appoggiato al parapetto a guardare l’ignoto e a chiedermi se mai ci fossero dei pesci in mare pronti a sbranarci.
E un altro ragazzo, ruspante di vent’anni, figlio di un famoso magistrato, il padre deceduto e la madre rovinata, spogliata di tutto e ingannata dallo zio e che ha deciso di risparmiare quattrini per trovare giustizia.
E ancora, Siku, nigeriano, che è fuggito da Boko Haram.
Così come Cirillo, camerunense, cristiano, pure lui minacciato dagli islamici.
Cirillo, colpito dalla sindrome libica, razzismo, sequestro di persona, stupro e “luoghi di tortura”.
Cirillo, che parla come un filosofo e racconta sommessamente delle milizie e degli assassini del Daesh, dei migranti obbligati a prendere le armi per trasformarsi in carne da cannone.
E quei poveri diavoli che vengono drogati e costretti a torturare i loro stesi fratelli.
Così, fra quelle persone che dormono attorno a noi avvolte in coperte, ci sarebbero fianco a fianco torturati e torturatori?.
Cirillo annuisce.
Fuori il mare ruggiva, sogghignava, non lo riconoscevo più.
Per non finire con l’odiarlo, mi costrinsi a rammentare i delfini venuti a incontrarci al momento del salvataggio dello Zodiac.
Uno, due, tre, quattro e poi cinque delfini che si sono messi proprio davanti alla prua.
Sono rimasti là a lungo, per mostrarci la via per il salvataggio.
Jean-Paul Mari
Fonte -> http://www.liberation.fr/planete/2016/03/17/sos-mediterranee-lettre-a-ma-mer_1440294
Photos: Patrick Bar