[TRE DOMANDE A] ALESSANDRO PORRO, IL SOCCORSO DEL 9 GIUGNO 2018, L’INIZIO DELL’ODISSEA DELL’AQUARIUS.

[TRE DOMANDE A] ALESSANDRO PORRO, IL SOCCORSO DEL 9 GIUGNO 2018, L’INIZIO DELL’ODISSEA DELL’AQUARIUS.

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Alessandro è uno dei soccorritori più esperti del SAR team di SOS MEDITERRANEE e da ormai 20 anni ha deciso di dedicare la vita al soccorso di quella degli altri.

Ad un anno dal soccorso del 9 giugno 2018, Alessandro racconta la drammatica esperienza che ha dato inizio all’odissea dell’Aquarius.

“La notte del 9 giugno sembrava un soccorso qualsiasi, anche se i soccorsi non sono mai qualsiasi. Quando l’Aquarius è arrivata sul posto, la situazione si presentava critica, le imbarcazioni da soccorrere erano due e si potevano già contare 40 persone in acqua. Era una notte senza luna, erano dei punti neri senza i giubbotti di salvataggio, e non c’era modo, nonostante le nostre torce le nostre termo-camere di capire dove fossero, dove fossero in mezzo al mare con la deriva col vento con le onde che li portavano via, per cui abbiamo fatto una cosa inusuale. Abbiamo spento i motori, abbiamo incominciato ad ascoltare le urla con le orecchie per cercare di rintracciare le persone ascoltando le loro grida e così ne abbiamo recuperati 40.

Il giorno successivo era il 10 di giugno, io ero sul ponte a portare assistenza alle persone. Erano 630, quindi la nave era veramente affollata. E a un certo punto il nostro coordinatore ci chiama per fare una riunione, ci porta in mensa – che e’ il posto della nave in cui noi operatori possiamo avere un po’ di riservatezza – e ci dice che sta succedendo qualcosa, che i giornali hanno incominciato a twittare, a scrivere, a raccontare che i porti sarebbero stati chiusi e che non saremmo arrivati in Italia. Ed è stato veramente un momento disorientante perché’ sembrava uno scherzo… un gioco… perché sappiamo che le regole internazionali ci sono. Le regole internazionali dicono che no, bisogna andare nel porto sicuro più vicino… nel posto sicuro più vicino.

Abbiamo capito solo alla sera, quindi ancora dopo tante ore quando stavamo in acque internazionali che ci saremmo dovuti fermare. A quel punto abbiamo ricevuto un ordine della Guardia Costiera italiana che ci diceva fermatevi dove siete e rimanete in standby.

Durante il viaggio fra le acque internazionali vicine all’Italia e la Spagna sono passati tanti giorni – tanti giorni di cattivo tempo, anche. Abbiamo dovuto cambiare la rotta, fare un giro strano rispetto a quello che poteva essere la normalità. E all’inizio eravamo molto affollati, eravamo 630, poi la Guardia Costiera e la Marina Militare Italiana hanno trasferito sulle loro imbarcazioni parte delle persone che avevamo a bordo. Situazione a cui non eravamo preparati… a un certo punto abbiamo finito anche il cibo!

Non era concepibile che questo soccorso, che come ogni soccorso dovrebbe essere un’operazione veloce, andasse avanti per così tanto tempo. Un soccorso finisce solo quando l’ultima persona è sbarcata.

Dal mio punto di vista, che arrivo dal mondo delle ambulanze, è stato come se un’ambulanza partita a Firenze avesse dovuto portare il suo paziente a Mosca, perché tutti gli ospedali in mezzo ti dicevano no non puoi no non puoi no non puoi.”

Alessandro racconta che un momento molto critico per l’equipaggio è stato quando hanno dovuto comunicare alle persone soccorse che sarebbero state trasbordate in parte su navi militari, poiché scappano da un contesto libico militarizzato e violento. “Invece, incredibilmente, alla fine, anziché avere scene di panico avevamo tante persone che cantavano gli inni delle squadre di calcio spagnole tanto erano contente di arrivare in un posto che non fosse la Libia.

Non eravamo pronti a tutto questo… perché noi siamo soccorritori, il nostro lavoro è soccorrere le persone. Lì abbiamo capito che la situazione diventava un problema politico, che i soccorritori non hanno i mezzi per interagire con situazioni internazionali complesse, però c’eravamo in mezzo e abbiamo fatto del nostro meglio.

Quello che per me è urgente e importante da ricordare è che in quei giorni in cui noi eravamo a Valencia, il tempo di andare e il tempo di ritornare, non c’erano navi di soccorso, non c’erano navi né civili, né militari, né di ONG, che facessero dei soccorsi, e in quei giorni sono morte 200, persone quindi credo che ci siano delle responsabilità precise di chi ha portato quella situazione.

Ad un anno di distanza da Valencia la situazione è cambiata. È peggiorata. L’opinione pubblica europea si è abituata al fatto che ci siano navi private di soccorso che non possono fare soccorso, che rimangono ferme magari per 10 giorni o che vengono sequestrate. Tutto questo sta diventando una cosa normale perché a noi è successo, e siamo stati i primi ad essere bloccati, ma poi è diventata la normalità.