23esimo salvataggio : in fuga dalla guerra e dalla violenza per una vita migliore
Venerdì 5 agosto 2016.
I soccorsi si susseguono, ma non si assomigliano mai. Ognuno ha la sua particolarità. Questo 5 agosto, l’Aquarius ha appena effettuato il suo 23esimo salvataggio e si è verificato un fatto assai inusuale, i profughi sono 75, in un gommone di circa 12 metri. Di solito, le persone a bordo sono ammassate a tal punto che alcuni sono costretti a stare in piedi durante tutta la traversata. Quando le nostre scialuppe si avvicinano, l’atmosfera è pesante, tutti sono silenziosi, i visi sono impenetrabili. Diversi uomini sono seduti nei loro stivali di gomma, con le gambe distese. Il nostro gruppo di soccorso teme dapprima il peggio, ma i medici di MSF ispezionano l’interno e constatano in fretta che a bordo tutti sono sani e salvi. In seguito i migranti ci hanno confermato di non essere stati più numerosi alla partenza dalla Libia e ciò ci dà sollievo.
La stragrande maggioranza di loro proviene dalla Nigeria, dove la violenza delle armi, i rapimenti e la miseria che dilagano in alcune regioni spingono sempre più persone verso l’esilio. Ognuno ha la sua storia, la sua ragione per partire. Tra le sette donne soccorse c’è S., 29 anni, di padre libico e madre marocchina. È divorziata, senza figli, e ha perso ogni tipo di contatto con i suoi genitori, separati. In Libia, doveva lavorare come cameriera e come donna di servizio, per sopperire alle proprie necessità. Ma una donna divorziata e sola è mal vista. Temeva sempre più di essere molestata e alla fine ha preferito rischiare di prendere la via del mare per « non avere più paura e vivere in un luogo sicuro ».
Per quanto riguarda gli uomini, una quindicina viene dal Marocco e dalla Libia. Gli ultimi bombardamenti hanno aggravato la situazione e spinto verso il mare ancora più gente disposta all’esilio. H., marocchino, viveva in Libia da quattro anni. Era cuoco e lavorava tra Benghazi, Al Bayda e Tripoli. Tra i bombardamenti a Benghazi, gli attentati e i rapimenti a Tripoli e il suo stipendio che non veniva più pagato, non ha avuto altra scelta che partire. « Sarei restato se mi avessero pagato. »
Raj, del Gana, assicura che non sarebbe partito dalla Libia se la situazione fosse stata minimamente sostenibile. « Ci ho lavorato per sei mesi, pulivo le strade e le auto. Anche quando eravamo pagati, ci prendevano e ci minacciavano con le armi. Mandavano dei complici a rapirci. Nel gommone molti piangevano e mi ha rattristato molto di vedere che tra noi c’era un bambino piccolo. Io non avevo paura, la morte arriva una volta sola ! Non avevo paura perché so cosa sto cercando : una vita migliore. »
Photo Credits : Isabelle Serro/SOS MEDITERRANEE
Testo: Nagham AWADA
(traduzione di Sara Gisella Omodeo)