II nostro visto è la sofferenza
Aquarius, 16 Ottobre 2016
Testimone Y.
Allungato per terra, su una coperta sul ponte posteriore della Aquarius, Y., 21 anni, camerunense, si rianima a poco a poco. Meno di 24 ore dopo il salvataggio della imbarcazione sulla quale si trovava, il giovane confessa di essere ancora sotto shock. Quasi se ne scusa. “Sapete, i libici sfoderano le loro armi come voi sfoderate i vostri iPhone! Sono veramente molto cattivi. Mi viene da piangere, quando ci ripenso”.
Se tutto quello che ha vissuto è ancora ben impresso nella sua anima, Y. non sa esattamente da dove sono partiti i 4 gommoni, di cui due sono stati soccorsi domenica da SOS MEDITERRANEE, ed altri due dalle squadre di Medici Senza Frontiere a bordo della Dignity 1. “Quello che so, è che noi siamo saliti sulle barche alle 23.00”. Sapeva come si sarebbe svolto tutto, prima di imbarcarsi. Di contro, non aveva mai visto il mare. “Sono ancora traumatizzato! Non avevo realizzato che stavo per vedere tutta quell’acqua! E poi, quando ho visto le onde…”. Apre i grandi occhi, ancora terrorizzato. “In quel momento, se potuto, avrei fatto marcia indietro. Ho viaggiato coprendomi gli occhi con le mani, per non vedere! Quando i soccorritori si sono avvicinati, ero molto contento. Perché se fossimo rimasti soli, saremmo morti.” Riprende fiato, sospira. “Alla fine, è passata.”
I superstiti soccorsi domenica da SOS MEDITERRANEE sono tutti arrivati sulla Aquarius a piedi nudi, senza telefono, le tasche vuote. “Prima di partire devi lasciare tutto. Non entri in acqua con oggetti in ferro o con vestiti rossi, niente telefono. Dicono che non si può indossare roba rossa perché ci sono gli squali che potrebbero scambiarla per sangue. Si abbandona tutto, le carte SIM, le chiavi USB… se le hai, le consegni. Ho capito dopo che è perché sospettano che le persone filmino l’avventura, tutto qui. Improvvisamente si alzano e ti levano tutto, le schede di memoria, le bussole, tutto. Perché hanno paura che li si riprenda. Ma io ho conservato tutto nella mia testa.“
In Libia non sai mai esattamente dove sei, non sai niente, perché ogni città che attraversi, sei dentro un camion, o ti coprono la testa, non sai dove ti trovi.“ Spiega. “Sono arrivato a Tripoli nel bagagliaio posteriore di una macchina, dentro un portabagli. Mettono due o tre persone dentro un portabagagli, perché non vedano niente. I trafficanti sanno che poi noi saremo interrogati “
Dopo Tripoli, è stato rinchiuso in un magazzino, prima di essere spinto, un mese più tardi, dentro uno dei gommoni in piena notte. “In questo hangar eravamo 300 persone forse, forse di più, serrati… incollati, incollati, incollati. Vedete, il mio corpo è pieno di segni, un po’ come sui cani, perché c’erano le pulci. Laggiù non ci sono coperte, ci sono soltanto due latrine.
Si dorme su tappetini molto sporchi, all’aperto, per mangiare si rubano i datteri, di notte.
E soprattutto non danno da bere acqua normale, si beve acqua salata, acqua di mare.
Si mangia come i cani. Certe volte ci hanno servito un piatto per 8 o 10 persone e dovevamo mangiare con le mani. Non prendersi il Colera è una fortuna. Si mangiano maccheroni, spaghetti, solo questo. Siamo stati molto male laggiù, è terribile.”
“Quelli sono dei banditi, ci trattano come animali, come negri. Vivono trafficando esseri umani. Ci insultano, quando capisci l’arabo, capisci che ti danno dell’asino e peggio ancora. Eppure sono africani come noi! Ci frustano. Con i tubi del gas. Io l’ho provato, mi hanno frustato, percosso, molte volte. Ci hanno fatto molto male, qui hanno frustrato anche persone anziane, ma è come se frustassi tuo padre! Mi chiedo come si possa avere questo cuore.”
Se Y. è caduto tra le mani dei trafficanti di esseri umani, come tutti gli altri sopravvissuti dei salvataggi effettuati domenica dall’Aquarius, è colpa del fatto che non ha avuto altra scelta per raggiungere l’Europa. “Se avessi avuto un visto, sarei andato in Europa e in seguito sarei rientrato nel mio Paese per vedere la mia famiglia” spiega. “Quello che ti fa intraprendere il viaggio è che il visto è molto difficile da ottenere. Se non sei figlio di una persona importante, non te lo daranno mai. Nemmeno per studiare. Il nostro visto è la sofferenza”
Testo: Mathilde Auvillain
Traduzione: Barbara Amodeo
Photo Credits: Andrea Kunkl/SOS MEDITERRANEE
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