Sono le 3:45, l’Aquarius si sveglia : si annuncia un salvataggio
Aquarius, domenica 13.11.2016.
Malgrado l’inverno, continuano le traversate pericolose al largo delle coste libiche. 280 persone sono state soccorse da SOS Méditerranée sabato 12 novembre. Marie Rajablat, scrittrice, invitata a bordo per un turno di tre settimane, ci consegna il racconto di una giornata molto lunga di salvataggio a bordo dell’Aquarius.
« L’attesa è lunga su una barca di soccorso. Paradossalmente , dovremmo esserne contenti perché questo significa che non c’è nessuno in pericolo. Ma tutti questi ragazzi da varie parti del mondo non si sono imbarcati per stare ad osservare il volo dei gabbiani. Queste lunghe ore senza attività in uno spazio ristretto sono delicate. Nonostante qui tutti siano partiti per loro scelta per uno o più turni di tre settimane, la vita a bordo non è una passeggiata: promiscuità, isolamento e di tanto in tanto anche la difficoltà a comunicare con il mondo esterno mettono talvolta i nervi a dura prova. Ma tutto sparisce non appena viene annunciato un salvataggio e sale l’adrenalina. »
Sono le 3:45 quando risuonano nei corridoi i messaggi radio, più o meno comprensibili. Si bussa alle porte delle cabine che non sono ancora aperte, per assicurarsi che tutti siano pronti. Inizia allora il corteo per la mensa. Dal momento che non sappiamo quando tempo dureranno le operazioni di soccorso, occorre rifocillarsi. Il naso dentro un tazza di caffè, non ancora completamente svegli, ci arrivano informazioni frammentate: si tratterebbe di uno o due gommoni e di un’imbarcazione di legno. Il che lascia presagire circa un migliaio di persone stipate su delle imbarcazioni più o meno danneggiate.
Ci rendiamo velocemente conto che dobbiamo occuparci di uno dei gommoni. Saliamo sul ponte per cercare di avvistarlo. Che sia la prima volta o no, non appena l’imbarcazione emerge dall’oscurità della notte, è la sempre la stessa la paura che ci prende allo stomaco. Restiamo paralizzati da quella visione. Com’è possibile una cosa del genere?
L’Aquarius punta i suoi riflettori sul gommone in modo tale che le persone che sono a bordo sappiano che sono state trovate e che saranno soccorse. Un danza strana ed inquietante ha inizio. Mentre il piccolo gommone va alla deriva, l’Aquarius (che è lunga 77 metri) gli gira intorno, per posizionarsi al meglio. Il fascio di luce segue il gommone ma a tratti, e talvolta bastano pochi secondi perché le persone a bordo si ritrovino al buio. In quei secondi, la loro paura è palpabile. Al momento siamo ancora passivi e non possiamo far altro che constatare la vulnerabilità di alcuni esseri umani.
Poi inizia la grande danza: le due unità di soccorso faranno diversi viaggi nel corso di diverse ore per trasbordare tutte le persone dal gommone a bordo dell’Aquarius. Le donne, i bambini, i malati ed i feriti al riparo sotto lo “shelter”, gli uomini sul diversi ponti della nave. Questo primo gruppo di sopravvissuti non ha sofferto troppo il mare. Partiti alle 3 del mattino, sono stati trovati abbastanza velocemente. All’improvviso, gli uomini, in maggioranza molto giovani, sono più in preda all’eccitazione che altro. Cantano, ridono, si abbracciano.
Un secondo gruppo di sopravvissuti è trasbordato da un’altra imbarcazione nel pomeriggio. Com’era successo al mattino, Brigitte la soccorritrice, l’infermiera di Medici Senza Frontiere ed io, la narratrice, siamo identificate come le mamme o le nonne dell’equipaggio dell’Aquarius e assumiamo questo ruolo con gioia.
La carta geografica dell’Africa Subsahariana si disegna sul ponte : il Camerun, la Nigeria, il Ghana, la Costa d’’Avorio, la Guinea (Conakry), il Senegal ed anche tre giovani egiziani… Mentre una parte dell’équipe di Medici Senza Frontiere si occupa delle persone che si trovano al riparo nello “shelter”, un’altra parte percorre i ponti della nave con le équipe di SOS MED. Se i fotografi fotografano e i giornalisti scrivono i loro pezzi, si improvvisano anche addetti alle pulizie dei bagni, distributori di kit, baby-sitter e quant’altro…
Alla fine del pomeriggio, terminata l’eccitazione, emergono i dolori, le scene che si sono viste, le inquietudini e le angosce, e talvolta ci sopraffanno. Chi di noi è di turno su uno dei ponti viene assalito da mille richieste per “ vedere il dottore” e “ricevere le medicine”. Dietro queste richieste – che siano vaghe (“ho male qui” e la persona mostra tutto il petto) o che siano une elenco alla Prévert- c’è la moltitudine delle questioni che li assale, i sogni di un altrove che vacillano, la paura di ritrovarsi soli, per alcuni, delle immagini/flash-back che li tormentano, per tutti, già la nostalgia del loro paese e il bisogno di rassicurare la loro famiglia e ascoltare quelle voci familiari e rassicuranti. Allora basta dire loro costantemente quello che sappiamo e, soprattutto, quello che non sappiamo della nostra navigazione perché si tranquillizzino. Il primo giorno chiacchieriamo, sorvoliamo sulle cose. Abbiamo il tempo di imparare alcuni nomi: Samber, Moussa, Mohamad, Victor-Léonard, José, Ali … Se abbiamo la fortuna di rimanere insieme per qualche giorno, andiamo un po’ più in là. Basta riconoscere che hanno tutte le ragioni per stare male perché inizino a sentirsi un po’ meglio.
Man mano che passa il tempo, si addormentano gli uni appoggiati agli altri. Sfortunatamente sarà solo per qualche ora, perché alle 4 del mattino seguente trasbordiamo i nostri 280 passeggeri sulla Vos Hestia, la nave della ong Save the Children, che li porterà a destinazione in Italia.
Testo: Marie Rajablat
Traduzione: Francesca Ciardello
Photo credits: Susanne Friedel/SOS MEDITERRANEE
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