AQUARIUS UNICA NAVE DI SOCCORSO DELLA SOCIETÀ CIVILE A OPERARE DURANTE L’INVERNO SENZA INTERRUZIONI
Aquarius, lunedì 28.11.2016.
Marie Rajablat è una scrittrice inviata da SOS Méditerranée a bordo della Aquarius. Giorno dopo giorno, ci racconta la vita a bordo della nave che ha raccolto più di 8000 rifugiati dalle acque del Mediterraneo dal Febbraio scorso. La Aquarius si prepara a trascorrere un inverno solitario in mare: la nave di SOS Méditerranée sarà infatti l’unica a pattugliare la zona a rischio durante tutto l’inverno, senza interruzione.
« Saremmo dovuti ripartire quella sera lì verso Catania per la sostituzione dell’equipaggio, le riparazioni e il rifornimento della nave. Però l’idea di ripartire « a mani vuote », quando molte persone erano state soccorse in mare negli ultimi giorni, faceva sbuffare l’equipaggio. Ma, a parte la Aquarius, questa è la fine della stagione per le ONG che hanno affittato delle navi per soccorrere i rifugiati e neppure loro vogliono rientrare « a mani vuote », soprattutto visto che si tratta del loro ultimo viaggio. Le associazioni umanitarie devono sospendere le operazioni durante l’inverno. Si potrebbe pensare che le cattive condizioni metereologiche dissuadano le persone dall’attraversare il mare in inverno. Niente affatto. Sono obbligate a fermarsi tre o quattro mesi a causa della mancanza di fondi. SOS Méditerranée sarà dunque l’unica ONG presente nell’area (…).
Stavamo quindi pulendo svogliatamente i giubbotti di salvataggio usati durante l’ultima operazione quando è arrivata la notizia: a sei ore di rotta ci aspettava un trasferimento di 650 persone soccorse dalla guardia costiera italiana, ovvero l’equivalente di cinque o sei imbarcazioni a scafo semi rigido. Su uno di questi, almeno sette donne erano morte. Considerando l’ora tarda in cui era previsto che li raggiungessimo, era stato concordato con la guardia costiera che loro avrebbero precedentemente distribuito un pasto in modo che queste persone dovessero solo pernottare sulla Aquarius. L’operazione di trasferimento dei passeggeri ha avuto luogo qualche ora più tardi su un mare piuttosto calmo. Due « RHIB » – i canotti di salvataggio – facevano avanti e indietro, ogni volta con una quindicina di persone a bordo.
I trasferimenti di passeggeri sono sempre dei momenti delicati e non solo a causa delle condizioni metereologiche. I sopravvissuti sono spesso reduci da una notte infernale sulle imbarcazioni, poi una giornata, forse un’altra ancora, ammassati sui ponti metallici, duri e freddi di navi commerciali, di guerra o da salvataggio. L’alloggio è dunque quantomeno spartano, il vento o il freddo non gli danno tregua. Il cibo è minimalista, soprattutto per dei giovani uomini, visto che si tratta di bustine di alimenti liofilizzati. Senza contare il fatto che questi trasferimenti di passeggeri sono spesso decisi all’ultimo minuto, proprio nel momento in cui le persone cominciano a lasciarsi andare ed addormentarsi. Distrutti, spesso traumatizzati dai loro viaggi in mare, devono risalire su una piccola barca spesso identica a quella che li ha quasi condotti alla morte. Se erano riusciti ad asciugarsi, sono di nuovo zuppi a causa degli schizzi d’acqua. Il panico e la stanchezza sono fattori con i quali non si scherza.
Quella sera, il cielo era pieno di stelle. Un paesaggio che stonava con le circostanze. Come sempre fu Ebezener, uno dei marinai della Aquarius, a gestire la situazione. Appena dietro di lui, guardavo ognuno di quegli uomini salire a bordo. I primi dieci si erano seduti a tribordo e i dieci successivi a babordo. Ebenezer gli chiedeva da dove venissero. Tutti dal Ghana… come lui… la sua commozione era palpabile e noi passeggeri ce ne siamo accorti. Nonostante ciò dalla mia postazione vedevo i loro sguardi rivolti verso di lui e vi ho visto della sorpresa, forse persino dell’incomprensione. Come se la pena, la compassione e l’indignazione che leggevano d’un tratto nello sguardo di Ebenezer li riportasse fra il genere umano, loro che ne erano stati espulsi a causa degli eventi delle ultime settimane e soprattutto degli ultimi giorni. In Libia, la loro dignità e la loro integrità erano state ridicolizzate. In mare, i loro punti di riferimento erano spariti. Per sopravvivere e sopravvivere alle prove successive, avevano dovuto blindarsi e soffocare qualsiasi emozione…
Ci vollero circa tre ore per trasferirli tutti e ancora qualche altra ora perché ad ognuno fosse assegnato un posto sui numerosi ponti dell’imbarcazione. Con 650 passeggeri, tutto si complica: la ripartizione del peso sulla nave, l’uso dei sanitari e delle docce ed ovviamente la promiscuità. (…) Un sistema di sorveglianza fu organizzato sui diversi ponti per rispondere ai diversi bisogni, rassicurare e sorvegliare il sonno di tutti.
Ci misero tanto ad addormentarsi, occupati a cercare di trovare un angolo più comodo, il corpo ancora teso per le ore di anchilosi e paura in mare. Arrotolati nelle loro coperte, stretti gli uni contro gli altri, il minimo movimento dell’uno si ripercuoteva sull’altro. Alcuni tossivano, altri avevano mal di pancia, altri mal di mare… Il vento si era alzato e il freddo si faceva sentire. Bisognò distribuire delle coperte in più, svegliando così tutti.
Alcuni si lamentavano. (…) Che li si confortava con delle parole o con una coperta, erano subito riconoscenti, si sentivano presi in considerazione e ciò bastava per permettergli di addormentarsi. Rimanevano i silenziosi, gli immobili. Quelli che possiamo immaginare siano ancora lontano, molto lontano, persi in sé stessi o in qualche luogo terribile. Verso mezzanotte dormivano più o meno tutti, chi più e chi meno pacificamente.
Il giorno successivo, anche se la notte era stata breve, i corpi e le lingue si sono sciolti, rovesciando fiumi di storie: N. e A., dei cugini togolesi, ci hanno detto la storia del loro doloroso viaggio in Libia ed hanno mostrato le loro cicatrici sulle braccia e sul dorso. Hanno raccontato frammenti del viaggio – « Siamo partiti lunedì all’alba e ci siamo persi subito… verso le otto abbiamo avvistato la guardia costiera, allora abbiamo sventolato i nostri vestiti per farci vedere… nella nostra barca c’erano sette donne che erano morte… ma c’erano altre tre persone in stato critico e queste sono state tutte salvate, grazie a Dio… La guardia costiera ha passato la giornata a recuperare delle persone in mare… questa notte possono addormentarsi felici … hanno salvato tantissime vite … » .
Poi è stato il turno di O., dal Ghana, che mi ha raccontato perché se ne è andato: « Non avrei mai pensato di lasciare il mio paese. Ero proprietario di una fattoria. Ci era nato come ci era nato mio padre prima di me. Non eravamo ricchi ma avevo abbastanza per nutrire la mia famiglia … come tutti gli anni, dopo il raccolto, bruciai il mio campo ma questa volta il vento soffiò su quello del mio vicino. Mi ha denunciato e sono stato condannato a pagare 600 euro. Siccome non li avevo, ho deciso di andare a lavorare in Libia. Nella mia regione, molti uomini partono per lavorare lì. Così avrei potuto pagare il mio debito e gli studi dei miei bambini, così che loro non si trovino un giorno nella mia stessa situazione. Ma una volta arrivato lì, le cose non sono andate come previsto. Sono stato arrestato, imprigionato in una cella. Per essere rilasciato mi chiesero 1.500 dollari, ma io non disponevo di una tale somma. A chi avrei potuto chiederla?! Riuscii ad evadere insieme ad altri, ma non mi restava altra scelta che attraversare il mare. Ho riunito 500 euro perché non potevo tornare indietro. Non avrei mai pensato di dovermene andare così lontano dalla mia famiglia … ».
D. ascoltava i suoi compagni di sfortune. Si esprimeva in un inglese degno di Oxford ed era infatti professore di inglese. Portava la sua coperta sulle spalle con la stessa eleganza con cui avrebbe portato un costume di tweed. Era Nigeriano e confermava le affermazioni di N., A. e O. a proposito della crudeltà dei « ribelli » libici. Se era incapace di stare in piedi oggi era non solo a causa del viaggio ma anche dei maltrattamenti subiti nei campi di Sabrata. Era venuto sei mesi prima in Libia per insegnare l’inglese in un istituto privato. Catturato, poi rinchiuso e torturato per settimane, doveva la sua salvezza alla disattenzione dei guardiani, che gli aveva permesso di evadere.
In mezzo a tutti questi racconti terribili, sul ponte passavano delle donne dal ventre rotondo e D., la bambina di un mese… La giornata è passata tra l’ascoltare degli uni e il raccontare degli altri. Poi un’altra sera e un’altra notte, fino al famoso mattino in cui toccarono il suolo europeo … »
Le situazioni e i fatti qui riportati riguardano soltanto il suo autore.
Testo: Marie Rajablat
Traduzione:Flavia Citrigno
Photo credits: Susanne Friedel/SOS MEDITERRANEE
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