Ho solo 17 anni, voglio vivere – La testimonianza
Testimone: Ragazza del Ghana, 17 anni*
Queste le sue parole:
“Ho 17 anni, ho lasciato tutta la mia famiglia in Ghana perché nella nostra tradizione islamica una ragazza deve sposare il figlio dello zio paterno ma io non volevo perché il mio desiderio è sempre stato quello di andare a scuola. Da noi se ti sposi non puoi più studiare e nemmeno lavorare. Non è facile vivere in Ghana per una donna, la regola è che si deve sposare e fare figli, deve accettare tutto questo davanti allo “shrine”, l’altare tradizionale di famiglia, se non lo fa viene maledetta e rigettata.
Mia madre non voleva che fossi buttata per strada ma mio padre mi diceva che se non avessi sposato quell’uomo mi avrebbe uccisa. Mi ha picchiata con la cinghia, ma quando ha visto che continuavo a dirgli di no mi ha minacciata e mi ha urlato “Se non lo sposi ti uccido”.
Noi siamo quattro fratelli, un maschio, il più grande, e due sorelle che sono state sposate con uomini scelti da mio padre. Lui mi proibisce di andare da loro finché anch’io non sono sposata. Anche mio fratello cercava di convincermi, anche con le botte, ma sapevo di voler fare un’altra vita.“
“Mia madre non poteva dire nulla ma non voleva che io partissi, continuava a piangere e aveva paura per me. Era malata, non poteva camminare perché aveva le gambe paralizzate, ma comunque non si sarebbe mai potuta opporre a una decisione di mio padre. Lui mi picchiava e mi diceva che non avrebbe aspettato ancora molto, se non avessi deciso mi avrebbe sparato.“
“Sono fuggita dal mio paese alla fine di gennaio 2017. Dal Ghana alla Libia il viaggio è durato tre settimane, non pensavo che fosse così difficile.
Però attraversare il mare è peggio che il viaggio nel deserto, lì almeno se cadi c’è la sabbia, nel mare tutti si spingono, sei schiacciata uno sopra l’altro, se cadi in mare nessuno ti raccoglie, nessuno può fare nulla e muori. Nel deserto se si rompe il motore della macchina si può aggiustare, ti puoi fermare”.
Poi si interrompe e sembra che i pensieri cupi si addensino, ha l’aria molto seria e dice: “Però è pericoloso fermarsi nel deserto, se il camion riparte e tu non sei sopra non c’è nessuno che ti prende. Ho visto molti corpi morti sulla sabbia”.
Quando le chiedo se qualcuno le ha fatto del male durante il viaggio, mi dice:
“Tutti vengono picchiati ai check point, ma io non avevo nulla da dare a loro. Mi nascondevo per non essere notata, ma anche per non vedere e non sentire.
Siamo arrivati a Tripoli e io avevo solo in mente di trovare lavoro per pagarmi la scuola. Ma ho subito capito che la situazione era molto difficile, ho avuto tanta paura, ho sentito uno scoppio fortissimo, era una bomba per strada vicino a noi, poi ho visto passare un gruppo di gente armata che sparava. Hanno ucciso così tante persone!
Mi hanno detto di scappare perché eravamo nella “black zone”, il quartiere degli immigrati neri, i libici odiano gli immigrati, soprattutto i neri. C’è la caccia ai neri, è una vera guerra contro di loro. Se uscivo per comprare qualcosa da mangiare venivo sempre seguita, mi spingevano e a volte mi mettevano le mani addosso. Uscire di casa, soprattutto per un nero, è pericolosissimo, ancora di più per una donna.
Ho visto prendere tante persone insieme ed essere messe su un camion, sono state portate via e non si è saputo più nulla di loro. Ho visto gente che veniva uccisa mentre stava solo camminando per strada.
A Tripoli vivevo nella “black zone”, sono stata portata da degli uomini in una grande casa dove c’erano quaranta ragazze nere che venivano chiamate per lavorare e che aspettavano di partire. Io facevo le pulizie in casa di una donna araba che non mi ha mai pagata, se le chiedevo i soldi mi picchiava. Era molto frustrante e anche spaventoso, si viveva sempre nella paura che potesse succedere qualcosa, a volte si sentivano degli spari e degli scoppi molto forti. In questa casa sono stata per un mese, o forse un po’ di più.
Quando ho visto com’era la situazione ho avuto paura perché ho capito che non avrei potuto vivere lì e non sarei mai potuta tornare indietro, in tutti e due i casi sarei morta.
Mi sentivo persa”.
Le chiedo che cosa sapeva dei viaggi in mare per l’Europa:
“Non sapevo nulla delle barche che partivano per l’Europa, io sono andata in Libia per lavorare, ma una notte hanno buttato una bomba sulla casa dove eravamo, allora sono venuti a prenderci un gruppo di uomini e ci hanno portato dove partono le barche.
Era notte, non si vedeva niente, solo il gommone bianco sul quale siamo saliti, ricordo che con me c’erano molte ragazze e altre persone. Non ho pagato niente, non avevo soldi, la donna araba per la quale ho lavorato deve aver dato i soldi per il mio viaggio”.
“Ho chiesto dove saremmo andati e mi hanno detto in Europa. Subito non avevo paura perché non sapevo nulla del viaggio e non vedevo niente perché era buio, ma quando è arrivato il giorno con la luce ero terrorizzata in mezzo al mare. Vedevo gli altri piangere, vomitare, pregare, io restavo immobile, volevo piangere ma se l’avessi fatto avevo paura di cadere. Ero paralizzata dalla paura”.
Le chiedo che cosa vuole fare in futuro, il suo viso si illumina in un sorriso che fa intravvedere tanta speranza.
“Ho pensato che se mi fossi salvata avrei studiato per aiutare le persone in prigione”.
Le domando perché vuole aiutare le persone in prigione.
“Perché anche noi vivevamo come in una prigione, io ho visto che cosa vuol dire, tanti giorni senza mangiare e con poca acqua. Voglio fare da mangiare per le persone che sono in prigione”.
Le chiedo quale sarà la prima cosa che farà arrivando in Italia?
“Vorrei dire a mia madre che sono viva, per mio padre invece sono morta. Io ho solo 17 anni, non voglio sposarmi, voglio vivere per studiare”.
(*) nome nascosto
Autrice: Francesca Vallarino Gancia – Testimony Collector
Foto: Francesca Vallarino Gancia
Editing: Francesca Vallarino Gancia
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