In Libia ci trattano come schiavi – La testimonianza
Aquarius, 14 gennaio 2017
Testimone Y.
Y. ivoriano, di 26 anni, racconta le prove che ha attraversato in Libia prima di essere spinto in acqua a bordo di un canotto ed essere soccorso al largo del mar Mediterraneo dallo Aquarius lo scorso venerdì 13 gennaio.
Quando la Aquarius si avvicina a Messina, le cime innevate dei monti Nebrodi appaiono all’orizzonte. Un vento glaciale spazza il ponte posteriore della nave, i volontari di SOS MEDITERRANEE e il personale medico di Medici Senza Frontiere distribuiscono delle tazze di tè caldo zuccherato ai 300 passeggeri tremanti. Il viaggio di ritorno è stato lungo e movimentato. Due dei passeggeri sono stati trasportati in elicottero a Malta il giorno prima. Due altri, in ipotermia, si trovano ancora nella clinica della Acquarius sotto sorveglianza dei medici. I passeggeri più deboli sono stati portati nello « shelter », una stanza particolare riservata alle donne ed ai bambini. Indeboliti dalla traversata difficile, dimagriti dopo settimane o mesi passati nelle prigioni libiche, molti sono al limite delle loro forze. Ma bisogna resistere, non restano che poche ore di navigazione fino al porto di Messina dove il MRCC, il centro di coordinazione dei soccorsi in mare della guardia costiera italiana, ci ha indirizzato per sbarcare.
Y. esce dallo « shelter » perché fa troppo caldo. « Già in Africa non sopportavo il caldo » dice sorridendo. Qualche ora prima tremava e non riusciva a stare in piedi sulle sue gambe. Realizzo che nell’arco di tre giorni, questo giovane uomo di 26 anni ha visto per la prima volta il mare e la neve. È uno dei 109 migranti trasferiti da una nave della marina italiana allo Aquarius la sera del 13 gennaio. « Sogno dell’Europa da quando sono piccolo…Per me cambiare orizzonte era un sogno. Poter evolvere. Ma non sapevo nulla delle sfide che mi aspettavano ». Il giovane ivoriano è sul punto di realizzare il suo sogno di bambino, ma la gioia che lo animava è svanita. « Non lascio nessuno dietro di me, il mio papà, la mia mamma e i miei fratelli sono tutti stati uccisi durante le violenze in Costa D’Avorio » spiega.
« Me ne sono andato da solo, sono passato per il Burkina, la Costa d’Avorio, la Nigeria e poi la Libia fino ad Al Qatrun, la prima villa libica nel deserto. Ho passato due settimane praticamente senza né mangiare né bere. Ero lì, senza documenti, senza niente di valore, trattato come merce » racconta Y. Spiega che più tardi si ritrovò in un campo, dove non aveva diritto che a « un cucchiaio di cibo e un pezzo di pane al giorno ». Racconta che il 3 dicembre ci fu una rivolta vicino la prigione dove si trovava, senza per tanto saper spiegare dove questa si trovasse esattamente. « Sai, le cose tra i libici non vanno bene. Litigano per i soldi ».
« Quel giorno, alcuni hanno cominciato a spingere la porta e 15, 20 persone sono scappate. Gli altri sono stati uccisi. In tutto sono morte una quarantina di persone ». Si ricorda di aver visto alcuni dei suoi compagni cadere sotto i proiettili. « Sono riuscito a scamparla e un nero del Niger mi ha aiutato. Mi ha accolto e dato da mangiare. Mi ha messo in contatto con altre persone e sono partito per Bani Walid. Per 100 dinari, mi hanno messo in una 4×4. Arrivato a Bani Walid, non potevo più tornare indietro ». Il suo “ salvatore “ è così diventato il suo “ carnefice “, spiega Y. « Mi ha obbligato a lavorare per lui. Qualsiasi tipo di lavoro: lavare le casa, la macchina, stendere i panni, coltivare. Non sono mai stato pagato. Tutto quello che mi davano era un cucchiaio di cibo ».
« In Libia ci trattano come schiavi » spiega Y. « Ci hanno fatto fare dei lavori che potevano fare le macchine, tutto solo per un cucchiaio di cibo al giorno. Ho delle cicatrici sulla schiena. Sono stato picchiato. Mi mettevano un coso elettronico sulla coscia ogni mattina. Poi me la fratturai, caddi e persi conoscenza. Ma dovevo continuare a lavorare. Non ti pagano mai per il lavoro che fai, ti picchiano e basta. È uguale per tutti. Non si può scappare. Ci sono dei bambini di 10, 12 anni che ti rincorrono con delle armi e ti cacciano dicendo « qui siamo a casa nostra » e non esitano a sparare» continua il giovane uomo, il tono distaccato.
In Libia non si possono differenziare gli uomini armati della polizia. È un altro mondo. C’è discriminazione ovunque. Una bottiglia d’acqua costa 10 franchi per i libici e per noi ne costa 50. In ogni momento, chiunque può puntarti un’arma contro. Ti sbattono in prigione e ti chiedono dei soldi. In Libia non è permesso lamentarsi, con nessuno. Lì, nessuno ha dei diritti, a parte i Libici. Noi non siamo che della merce, degli schiavi che non pensano che a rivendere. Per strada c’erano sempre degli spari. Alla fine, raggruppano le persone e le buttano così nei canotti. È una catastrofe! ».
Certamente rimpiange di esserci andato, ovviamente non ci vuole tornare mai più. « La gente non si salva. Vengono volontariamente ma non sanno che sarà così difficile. In Libia ti sparano, ti ammazzano, ti obbligano ad imbarcarti senza sapere per dove. ».
E queste persone si ritrovano, come lui, a piedi nudi su un canotto gonfiabile nel mezzo del Mediterraneo, senza giubotto di salvataggio, senza GPS. Pregando perché una nave venga a soccorrerli. Dall’Europa non si aspettano nulla di speciale. « Lascio l’Africa per rifarmi una vita », è tutto quello che dice.
Testo: Mathilde Auvillain
Traduzione: Flavia Citrigno
Photo Credits: Anthony Jean /SOS MEDITERRANEE
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