Se avete intenzione di riportarmi in Libia, salto giù dalla barca – Diario di bordo – dal SAR team
Aquarius, venerdì 09.12.2016.
Iason Apostolopoulos è uno dei membri dell’equipaggio SOS SAR attualmente a bordo della nave di soccorso Aquarius, di SOS MEDITERRANEE. Iason, che ha 32 anni, è originario della Grecia. L’anno scorso ha lavorato come conduttore di RHIB ed addetto al salvataggio attorno all’isola greca di Lesbo, dove più di 500000 rifugiati sono arrivati tramite il mare. Accompagnato da altri giovani volontari del posto, Iason ha fondato un’iniziativa indipendente di aiuto in caso di urgenza per i rifugiati a Lesbo. In seguito all’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, il numero di rifugiati diretti a Lesbo è diminuito radicalmente ed è sceso praticamente a zero. Nonostante ciò, la crisi è bel lontana dall’essere risolta ed è per questo motivo che ha deciso di impegnarsi come volontario per SOS MEDITERRANNEE. Si appresta a terminare il suo secondo turno a bordo dello Aquarius e, fino ad ora, ha partecipato a dodici salvataggi. Ecco un resoconto delle sue operazioni più recenti. Ha redatto questo articolo il 7 Dicembre al fine di informare i suoi genitori e la sua famiglia sulla situazione nel Mediterraneo.
«Cinque giorni fa, uno dei nostri salvataggi ha preso una piega drammatica. Sabato 3 dicembre, alle otto del mattino, un grande canotto che trasportava 145 persone ha cominciato a sgonfiarsi, provocando il panico a bordo. Nel tumulto generale, alcuni si sono gettati nel mare. Siamo riusciti a tirarli tutti fuori dall’acqua e, proprio nel momento in cui pensavamo che fossero tutti salvi, i sopravvissuti ci hanno informato che altre due persone erano caduti in acqua e non erano più risaliti. Abbiamo allora cominciato le ricerche sul RHIBS e, finalmente, abbiamo individuato e salvato le due persone segnalate. Sono riusciti a restare a galla attaccandosi ad un pezzo di plastica blu. La loro sopravvivenza è un miracolo.
Domenica 5 Dicembre, tra le 2 del mattino e l’una del pomeriggio, abbiamo effettuato tre salvataggi e due giorni più tardi abbiamo fatto sbarcare in Italia 353 immigrati sopravvissuti e, sfortunatamente, i corpi di due ragazze che sono state trovate svenute su una delle barche e che sono morte sulla nostra nave malgrado gli sforzi dei dottori. La causa più probabile del loro decesso è l’ipotermia. La settimana scorsa abbiamo effettuato due viaggi supplementari in Sicilia. Nel corso del primo sono state salvate 650 persone e 250 durante il secondo.
Le condizioni di questa traversata sono molto peggiori rispetto a quelle della traversata fra la Turchia e Lesbo. Qui, le persone non portano il giubbetto di salvataggio (quelli che vedete in foto sono stati forniti da noi) e il numero di persone ammassate su ogni barca è inimmaginabile. In generale, un canotto pneumatico semi-rigido può trasportare dalle 120 alle 150 persone mentre una barca di legno tra le 500 e le 600 persone. Su queste ci sono dei gradini dove la gente è incastrata in una tale maniera da doversi serrare agli altri, soffocandola, e i vivi devono viaggiare insieme ai morti per delle ore.
La loro traversata verso l’Italia dovrebbe durare tre giorni, ma i trafficanti gli dicono che sarà solamente di quattro ore. Quando gli viene spiegata la distanza percorsa, ne sono profondamente scioccati. In realtà, il rischio di morire è del 100% e la loro sola possibilità di sopravvivenza è la speranza di essere avvistati da una nave di salvataggio o quelle che trasportano approvvigionamento alle piattaforme petrolifere libiche.
I trafficanti libici adattano le loro attività alla presenza di navi di salvataggio e diminuiscono la qualità delle barche per la traversata. Limitano anche la quantità di carburante nei motori, gliene forniscono quanto basta per uscire dalle acque della Libia. Le navi di soccorso devono quindi avvicinarsi sempre più alla costa della Libia per realizzare le loro operazioni (ieri eravamo a 25 kilometri dal litorale).
La maggior parte di queste persone viene dall’Africa sub-sahariana, soprattutto dai paesi dell’Africa dell’Est e della Nigeria.
«Se avete intenzioni di riportarmi in Libia, salto dalla nave.» Questa frase spiega bene quello che avvertono tutti gli immigrati. Quando si riprendono dallo shock del mare, la sola cosa di cui parlano è la Libia. La Libia è l’inferno, ai loro occhi. Ci parlano dei pestaggi, dei furti a mano armata o delle violenze commesse tutti i giorni sui Neri. Ci dicono che molti libici sono estremamente razzisti verso gli Africani sub-sahariani, che chiamano “gli animali neri”, e che trattano come dei “sub-uomini”. Secondo le loro testimonianze, l’intero paese è armato, persino i bambini hanno un revolver. Si divertono a sparare sui neri a caso. «Chiunque ci può obbligare a dargli del denaro. Dei bambini di dieci anni ci molestano, e se osiamo rispondergli o persino guardarli negli occhi, siamo fortunati se ci sparano solo alle gambe », mi ha confidato uno di loro.
Le loro storie sono sconvolgenti. Delle milizie armate li imprigionano in dei centri di detenzione lasciandoli quasi senza cibo, colpendoli tutti i giorni, e la loro unica speranza di uscirne è pagare un libico perché li faccia scappare. Poi però dovranno lavorare come schiavi per questa persona. «Ti fanno fare qualsiasi tipo di lavoro ingrato, 16 ore al giorno senza pause, per tre o quattro mesi. Se osi chiedere di essere pagato, ti picchiano o ti sparano. A volte abbandonano qualcuno nel deserto perché muoia di sete. Non vale la pena cercare di scappare, perché è la stessa cosa in tutto il paese. Non c’è nessun luogo sicuro in Libia. »
La loro sofferenza termina in genere dopo quattro o cinque mesi. Quando i trafficanti decidono che li hanno sfruttati abbastanza, li mettono su una barca e li spediscono in Italia. In questo modo si assicurano un flusso costante di nuovi arrivati in Libia.
Per quanto riguarda le donne, lo stupro e il traffico di esseri umani sono ovunque. Nel corso del nostro ultimo salvataggio, le nostre squadre hanno riscontrato numerose vittime di violenze sessuali subite in Libia. Molte donne hanno appreso dai nostri dottori a bordo che erano incinte. La Libia è un paese di transizione importante per la tratta di donne verso l’Europa. Il procedimento è molto complesso. I trafficanti si appoggiano a dei magnaccia nei loro paesi d’origine (in particolare il Nigeria) perché questi portino le ragazze in Europa. Alcune sono consapevoli del lavoro che sono mandate a fare, ma non si rendono conto delle difficoltà che le attendono. Altre sono state attirate dalla falsa promessa di essere assunte nel mondo della moda. Per molte di queste, si tratta di un’opportunità unica per scappare dalla povertà estrema del loro paese di nascita ed aiutare le loro famiglie a sopravvivere. I magnaccia e le ragazze fanno il viaggio insieme e pronunciano un voto di silenzio basato sulle superstizioni locali. Ciò è il motivo per cui queste raramente parlano di ciò che hanno subito. In Libia, molte ragazze sono sequestrate dai trafficanti libici, che le obbligano a lavorare nei loro bordelli. I libici le sfruttano come sfruttano gli uomini, obbligandole a lavorare senza salario.
Nonostante tutte le sofferenze subite da questi individui, l’atmosfera a bordo dello Aquarius è fonte di ispirazione. Tutte queste persone si rispettano e si aiutano a vicenda, i più forti si prendono cura dei più deboli, tutti sono cordiali e calorosi ed alcuni, dopo essersi ripresi dallo shock, persino cantano e ballano. Le differenze di origini e credo religioso sono notevoli, ma è raro vederli litigare. Il tempo passato insieme durante la traversata verso l’Italia resta uno dei momenti migliori di questo terribile viaggio, e dirsi addio una volta sulla terra ferma è sempre molto doloroso. »
Testo: Iason Apostolopoulos
Traduzione inglese: Elodie Hunnt
Traduzione italiana: Flavia Citrigno
Photo credits: Laurin Schmid/SOS MEDITERRANEE
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