Testimonianze dal 22esimo salvataggio
Voglio solo vivere libero
Erano 98 a bordo del gommone salvato dall’Aquarius durante il 22esimo salvataggio. Erano migranti che provenivano principalmente dal Bangladesh, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ghana e altre nazionalità… una sorta di mini “arca di Babele” se così possiamo chiamarla, dove la comunicazione si era trasformata in un dialogo tra sordi. Tra tigrino, tigré, aramaico, bengalese, arabo, inglese, francese, come farsi capire con un messaggio chiaro e comprensibile da parte di tutti gli imbarcati, senza cacofonie e confusione?
“il nostro principale problema è stato quello che non ci capivamo l’uno con l’altro, perché parliamo lingue differenti” ci racconta un uomo eritreo. Un altro conferma: “se qualcuno dice: ‘siediti’ e noi capiamo ‘in piedi’, poi la gente inizia a litigare. È stato difficile calmare la situazione. Abbiamo cercato di separare le persone litigiose.”
La questione più complicata è stata che non c’era un pilota assegnato: “tutti provavano a fare del loro meglio per guidare la barca. L’acqua ha iniziato a entrare nel gommone, il compensato del fondo del gommone ha iniziato a rompersi, ed avevamo perso la direzione, non sapevamo da quale parte andare.” Dopo dodici ore in mare, la situazione è diventata sempre più difficile; “siamo passati vicino a quattro navi e siamo stati ignorati, sono andati per la loro strada. Eravamo senza speranza, pronti a morire.”
Già prima di arrivare a bordo del gommone, alcuni di loro hanno pagato un equivalente di 2200 dollari statunitensi senza poi nemmeno riuscire a fare il viaggio: “la prima volta eravamo circa 150 persone, ma 15 di noi sono stati portati indietro dopo un’ora, mentre gli altri sono stati in grado di continuare il viaggio. Noi siamo stati trattenuti in una casa per 15 giorni. I trafficanti affermavano che eravamo stati arrestati dalla polizia, ma in realtà stavano facendo un trucchetto per prenderci altri soldi”, ci racconta A., un ventitreenne eritreo. N, un ragazzo di 38 anni, ha avuto un’esperienza simile “ci hanno preso dalla costa e ci hanno detto di stare là. Noi siamo rimasti in questo posto l’intera notte e l’intero giorno. Non sapevamo perché la barca non fosse pronta. I trafficanti ci hanno messo in una piccola casa per tre giorni prima che la polizia venisse ad arrestarci. Abbiamo sospettato che i trafficanti avevano informato la polizia, perché la barca non era pronta.”
Cosa guida questi uomini a lasciare le loro terre e a confrontarsi con milioni di pericoli, anche prima di intraprendere la traversata in mare? A., che è partito da Khartoum in Sudan ci racconta: “durante la traversata del Sahara abbiamo assistito a un incidente d’auto, di un veicolo che faceva il viaggio insieme a noi. I trafficanti ci hanno detto che i passeggeri dell’auto erano tutti salvi, ma non abbiamo scoperto mai cosa fosse accaduto realmente a quegli uomini.”
Per N. stare in Eritrea era rischioso almeno quanto partire: “ho servito nell’esercito per 15 anni. Il mio dovere era stanziare lungo il confine con l’Etiopia, quindi sono stato accusato di aiutare la gente ad attraversarlo. Una volta trattenuto con questa accusa, un ufficiale – che era un mio familiare- mi disse di stare attento perché ero stato schedato, ed ero in pericolo. Ho lasciato l’Eritrea perché non mi sentivo più al sicuro”. N. Ha poi aggiunto che in Sudan, un uomo dal suo villaggio che era in contatto con i trafficanti, ha organizzato la traversata del Sahara per raggiungere la Libia, per un ammontare di 1300 dollari statunitensi. “In Sudan ho incontrato tre persone della mia famiglia. Siamo partiti per il viaggio insieme ma poi loro sono andati altrove, e io non so che cosa ne è stato di loro. L’uomo del mio villaggio che ha organizzato il viaggio ha cambiato numero di telefono ed è sparito.”
C’è un desiderio che N. spera sopra ogni altra cosa: di farsi raggiungere da sua moglie e suo figlio ovunque lui sarà. “Non ho soldi con me. I miei cinque fratelli sono morti nell’esercito e non c’è nessuno che può sostenere la mia famiglia. Noi abbiamo una piccola fattoria, quindi mia moglie lavora nei campi per ottenere di che vivere”. A causa della sua partenza, ha paura che la moglie venga interrogata o addirittura imprigionata. “ mi potrebbero chiedere dei soldi per farla rilasciare.” Riuscirà a proteggere la sua famiglia da chi gli vuole nuocere? “io non ho mai provato cosa significhi libertà nella mia vita. Prima di ogni altra cosa voglio vivere in un paese libero”.
Testo: Nagham Awada
Traduzione: Anna Meli/COSPE ONLUS
Photo Credits: Isabelle SERRO/SOS MEDITERRANEE