Ti racconto un segreto, ma non lo dovrai mai dire a nessuno – la testimonianza
Testimonianza : Ragazza del Sudan, circa 30 anni ma non sa la sua età precisa.*
Suad (nome di fantasia) viene spontaneamente da me per parlarmi. Cerchiamo un posto un po’ riservato nonostante le moltissime persone a bordo. Appena la guardo in viso vedo un volto molto bello con occhi vivi ma profondamente tristi.
Inizia a raccontare di sé con enorme difficoltà e mi riferisce di avere sempre un fortissimo mal di testa. Io le suggerisco di bere molto, come viene consigliato dopo ogni salvataggio, e le dico che è normale dopo il viaggio che ha trascorso in gommone e dopo tutto quello che ha passato.
Mi guarda con un’espressione profonda, intensa che sembra nascondere un segreto grave che le provoca un dolore muto incapace di esprimersi. Un dolore lontano che si è incarnato in lei. Mi guarda perché capisce che non ho compreso. Gli occhi le si riempiono di lacrime e con piccoli penosissimi gemiti inizia a raccontare.
“Ho bisogno di parlare perché ho paura che la testa mi scoppi. Ho questo dolore qui (e si passa la mano in testa dalla fronte fino dietro le orecchie), che non mi lascia mai e non mi fa più dormire. Sai, mi spavento per qualsiasi cosa, anche quando arriva qualcuno da dietro e mi passa vicino, io mi sento il cuore che salta, sobbalza come se uscisse fuori da me. Secondo te è una malattia?“
Le chiedo allora di raccontarmi qualcosa di più della sua storia.
“Io ho paura di parlare, sono scappata dal Darfur perché restando lì sarei morta”.
Il suo racconto è a mezze parole inframezzato da ricordi. Sapevo che avrei dovuto attendere con pazienza che fosse lei ad esprimere le cose terribili vissute.
Inizia così: “Ti racconto un segreto, ma non lo dovrai mai dire a nessuno, io sono di una tribù discriminata (mi dice il nome che mi prega di non rivelare) nella quale le donne non si sposano con altri uomini e gli uomini non si sposano con altre donne. Noi siamo considerati impuri, esseri umani “a metà”, quelli che non servono, che non sono in grado di studiare, che non si possono inserire nella società, dobbiamo stare seduti al nostro posto e stare solo lì, senza alzare la testa. Non possiamo nemmeno passare da una città all’altra perché siamo deboli, piccoli e gli altri ci fanno tutto quello che vogliono, ci possono uccidere, violentare, saccheggiare e fare qualsiasi cosa perché tanto non ci hanno mai considerato come esseri umani.
Un giorno, hanno preso la nostra casa, i terreni e le poche bestie che avevamo per vivere e, mentre mio padre tornava a casa dopo averci comprato un po’ di grano e un po’ di riso, l’hanno ucciso insieme a mio fratello più grande. Io non dicevo mai di che tribù ero e raccontavo sempre che appartenevo alla tribù delle persone dove vivevo in quel momento.
Mi sono sposata a 17 anni, forse, ma a dire il vero non ricordo l’età precisa. Ho conosciuto mio marito quando vivevo con delle mie amiche a Darfur, lui era di un’altra grande tribù e quando mi ha chiesto “chi sei? qual è la tua tribù?” gli ho raccontato una bugia e gli ho detto che appartenevo a un’altra tribù. Lui ci ha creduto e mi ha chiesto di sposarlo ed io ho accettato.
All’inizio andava tutto bene, io sono rimasta incinta pochi mesi dopo il matrimonio ma sotto i bombardamenti sono rimasta ferita e ho perso il bambino. Dopo poco sono rimasta di nuovo incinta e ho partorito una femmina.
La guerra continuava tra i ribelli e tra le tribù. La mia era sempre la più perseguitata. Quando la bambina era ancora piccola mio marito un giorno è venuto e mi ha detto “ti ho capita, ho saputo chi sei davvero”. Lui aveva saputo di quale tribù facevo parte e mi ha detto “come hai potuto nascondermi chi eri? Io gli ho risposto “ho dovuto nascondermi perché sennò non mi sposavi” e lui ha detto “comunque ora lo so chi sei e non ti voglio più”. E quindi mi ha cacciata via e mi ha preso la figlia urlando “Lei appartiene a me” poi ha preso un fucile e ha sparato gridandomi “ti uccido se non te ne vai”. Mi ha presa a calci, mi ha picchiata, mi ha buttata fuori di casa maledicendo me e i miei genitori e mi ha detto “andrebbe bene se ti dessi questa bambina perché lei ha un pezzo di carne della tua tribù, ma comunque non te la darò perché è mia figlia”. Così mi ha presa per il collo e mi ha buttata fuori ordinandomi di non tornare mai più.
Poi ho incontrato un altro uomo che è diventato il mio secondo marito. Lui era di un’altra tribù e quando ci siamo conosciuti questa volta non ho nascosto la mia, gli ho detto chi ero e lui mi ha detto “a me non importa ma se la mia famiglia verrà a saperlo avrò dei problemi, mi cacceranno via perché non posso sposare una donna di questa tribù, però io sono innamorato di te, ti voglio e ti sposo”. E così mi sono sposata con lui perché mi ha detto che i suoi genitori erano morti, ma aveva dei fratelli con i quali era molto legato.
Dopo poco tempo i fratelli e la gente fuori ha iniziato a creargli problemi, aveva difficoltà a parlare con gli altri e a integrarsi, gli urlavano sempre parolacce a causa mia e gli ricordavano che donna aveva sposato e questo era vietato e disonorante. Così lui ha incominciato a maltrattarmi, a picchiarmi con calci e pugni.
Con questo uomo ho fatto tre figli, due maschi e una femmina. La terza figlia è nata più piccola per tutte le botte che avevo preso e a motivo della sua piccolezza lui me l’ha portata via dandola a sua sorella, dicendo che doveva crescere lontano da me perché solo così non avrebbe avuto problemi.
Quando ero incinta del quarto figlio mi ha picchiata così tanto, con un bastone, che ho abortito. Non mi considerava più come un essere umano, in qualsiasi momento erano le parolacce e botte. Io rimanevo soltanto per i bambini, ma un giorno mi ha detto: “Ti ammazzo se dici un’altra volta che questi figli sono tuoi, e ti ammazzo come un cane se non te ne vai”. Alla fine mi ha presa per i capelli e facendomi strisciare per terra mi ha buttata fuori casa. Quando ho provato ad avvicinarmi per vedere i miei figli mi ha sparato con il fucile, sono scappata e da quel momento non sono mai più tornata.”
Tante persone della mia famiglia sono morte a causa della nostra tribù di appartenenza, molte altre sono fuggite e si sono disperse. Non ho mai più saputo nulla di loro.
Nel 2016 ci sono stati molti bombardamenti in Darfur, il tetto della mia casa mi è crollato in testa, sono stata un mese all’ospedale. A maggio dell’anno scorso sono scappata dal mio paese, non sapevo dove andare e con un’amica siamo partite per la Libia.
E’ stato un viaggio terribile, non l’avrei mai immaginato, abbiamo attraversato il deserto, ci siamo fermate tre mesi in Sudan a Khartoum per lavorare, ma io non volevo mai uscire di casa perché le donne vengono maltrattate e quelle della mia tribù vengono violentate o uccise.
Dal Sudan abbiamo preso la strada del deserto aggrappate al camion con tante altre persone, avevamo pochi soldi ma arrivati ai posti di blocco i soldati ce li hanno portati via tutti. Sono stata picchiata e violentata, la mia amica è stata portata via da loro e non l’ho mai più vista. Sono ripartita su un pick-up e sono arrivata a Bengasi e poi a Tripoli.
Sono stata messa in prigione perché ero illegale, ho visto e sentito cose orribili, non so dire quanto tempo sono rimasta ma ero sicura che sarei morta. Tutti i giorni venivano uomini arabi diversi che ridevano, ci spogliavano e ci violentavano. Era terribile, avevo perso la speranza dentro di me.
Non potevo mai dormire perché appena chiudevo gli occhi vedevo che qualcuno si metteva sopra di me e mi metteva le mani al collo per strozzarmi. Mi svegliavo con un grande dolore alla testa e senza fiato.
Mi ha aiutato a fuggire una persona che mi vedeva sempre piangere. Tremavo di paura, ero sola e non avevo più nessuno. Mi ha detto ”Corri più veloce che puoi e vai dove partono le barche per l’Europa”.
Ti ho raccontato tutto questo perché ho dei sassi in testa che mi fanno sentire molto male.
(*) nome nascosto
Autrice: Francesca Vallarino Gancia – Testimony Collector
Foto: Francesca Vallarino Gancia
Editing: Franesca Vallarino Gancia